Come si definisce l’identità di una città? Meglio ancora: come può una città definire la propria identità e il proprio brand in modo da influenzare la percezione del pubblico e creare un circolo virtuoso di turismo, impresa locale e senso di comunità? Sono diversi i fattori che trasformano un “luogo” in una “destinazione”, ovvero un qualcosa che semplicemente esiste in una meta verso la quale dirigersi. Il marketing territoriale serve proprio a influenzare questa trasformazione. A volte non si tratterà neanche di ricollocare il brand di un’intera città, ma semplicemente di rilanciare la reputazione di un quartiere dopo un intervento di riqualificazione urbana. Va detto, comunque, che creare in modo intenzionale un “brand” territoriale è un’operazione non priva di rischi. Siamo abituati a percepire l’identità di ogni luogo in base a quello che sappiamo della sua storia e delle sue caratteristiche. Questo tipo di “brand” non vengono costruiti, ma crescono in modo organico. Accelerare il processo o cercare di deviarne il corso rischia di lasciare dei vuoti nell’architettura identitaria del luogo. Come fare a integrare elementi di marketing territoriale nella vita della comunità locale senza commettere di questi errori? Occorre essere creativi e avere il coraggio di andare un po’ fuori dal seminato.
Creare un logo: il primo passo verso un buon marketing territoriale
Il logo “cittadino” più famoso del mondo non è difficile da intuire: si tratta di “I Love NY”. Lo vediamo su magliette, tazze, borse e cappelli in ogni angolo del mondo. Semplice, lineare, credibile: corrisponde in maniera perfetta a quello che sentiamo dire da decenni sulla città delle infinite opportunità. È possibile per qualsiasi città associare un’identità grafica così ben definita al proprio nome? Sicuramente è importante lavorare alla progettazione con professionisti capaci, ma naturalmente la realizzazione pratica deve essere preceduta da una pianificazione attenta. La città di Belfast, per esempio, ha tentato senza successo di produrre un logo nel 2008. Solo un anno dopo, Melbourne ha affrontato lo stesso progetto in modo più complesso e approfondito. L’idea era rappresentare la modernità assoluta della città australiana, con caratteristiche spesso associate all’intera nazione: il risultato è stato un luogo vivace, coraggioso, a tinte forti, inconfondibile con la sua splendida “M” in molteplici colori, simbolo delle molteplici identità che convivono con successo nella comunità locale. I poster del rebranding di Melbourne sembrano quadri pop serigrafati da Andy Warhol. Sono memorabili, di grande impatto, e chiunque li veda non può negare che rispecchino davvero i valori della città. Il team creativo incaricato dell’operazione ha accettato di correre dei rischi e ha avuto successo.
Definirsi in poche parole
In un’intervista televisiva, commentando un caso di cronaca abbastanza bizzarro, un’abitante di Glasgow ha definito la propria città “aggressively friendly”, aggressivamente amichevole. Chiunque conosca la capitale scozzese non può che essere d’accordo. Non bella come Edimburgo, a forte vocazione metropolitana ma senza le possibilità economiche di Londra, Glasgow si fa ricordare soprattutto per il carattere spigoloso ma fondamentalmente accogliente dei propri cittadini. Un paragone italiano efficace potrebbe essere quello del carattere tipicamente associato ai romani: ruvidi, ma simpatici. Da questo dato reale è partito il brand di Glasgow, che ha lavorato non su una campagna di immagine, ma prima di tutto su un payoff: “People make Glasgow” (“è la gente a fare Glasgow“, ovvero, l’identità della città è costituita dalla sua popolazione). Può sembrare un’operazione semplice, ma è in realtà molto coraggiosa: arrivando in un momento di depressione economica e incertezza per il futuro della Scozia, questo appello all’orgoglio cittadino serve a unire non sulla base di storia e tradizioni lontane nel tempo, ma sulla base della quotidianità, della vita, della realtà umana. A volte le idee più semplici sono le più efficaci. Naturalmente non bisogna pensare che non ci siano affatto elementi visivi nella campagna: il font scelto è geometrico e spigoloso come il carattere degli abitanti della città, ma richiama anche lo stile di Charles Rennie Macintosh, il più celebre designer di Glasgow, così da rafforzare l’idea di orgoglio comunitario legato all’elemento umano.
Partire dalla realtà
Il marketing territoriale non è solo questione di loghi e slogan: occorre la sostanza. I programmi di supporto a determinate professioni e comunità, le politiche ambientali, gli investimenti culturali e molti altri fattori contribuiscono all’immagine che si ha di un certo territorio – a patto di essere ben promossi. Un esempio: la Nuova Zelanda, evidentemente stufa di essere la cugina meno famosa dell’Australia, ha deciso di diventare la nuova Silicon Valley e ha cominciato attribuendo alla città di Wellington il soprannome di Silicon Welly. Questo è avvenuto in concomitanza con una serie di campagne mirate a convincere startupper e giovani brillanti esperti in discipline tecnologiche a trasferirsi nella terra degli Hobbit. La trovata geniale: dirigere il marketing agli americani preoccupati dal risultato delle elezioni del 2016, con una serie di campagne esplicite e politiche mirate ad aiutare chi fosse interessato a trasferirsi. L’iniziativa LookSee Wellington, per esempio, era mirata all’assunzione di 100 professionisti della tecnologia da tutto il mondo, con focus sugli USA. La campagna si è poi estesa, inserendo contenuti che rendessero evidente come la qualità della vita a Wellington – e in generale in Nuova Zelanda – fosse superiore a quella media di una stressante città americana. Il risultato? L’immagine della Nuova Zelanda si sta trasformando in quella di una specie di eden per giovani creativi, startupper, digital nomad e hippies, sviluppando quella che era già una reputazione legata a un’idea di socievolezza, amicizia e disponibilità. E al fatto di essere la terra degli Hobbit, che dovrebbe essere già abbastanza per chiunque.