Happy hour marketing Gennaio 14, 2019

Influencer marketing: è possibile “comprare” la popolarità?

La parola influencer è una di quelle che sentiamo più di frequente, da un po’ di anni a questa parte. Con l’esplosione dell’influencer marketing, si sono consolidate anche una serie di altre figure, dai micro-influencer ai brand ambassador, che girano intorno al concetto di “social influence”. Come spesso avviene, si è registrato un fenomeno quasi spontaneo (l’interesse dei consumatori si è spostato dai canali di promozione tradizionali verso blogger e utenti di piattaforme social, percepiti come esperti e affidabili) e si è cercato di “ricrearlo in laboratorio”, facendo diventare l’influencer una professione e dando vita a una miriade di strumenti e strategie che promettono ai brand tutti i benefici di questo genere di promozione. E quindi, la questione torna a essere quella che accomuna tutte le campagne di marketing: il budget e l’incorporamento di questi nuovi elementi nelle strategie dei brand.

È necessario inserire gli influencer nella propria strategia di marketing?

Per rispondere a questa domanda, bisogna prima di tutto avere un’idea chiara di come si vuole distribuire il proprio budget. Gli influencer di alto profilo possono avere costi esorbitanti e la loro influenza sul pubblico, nel tempo, è diventata innegabilmente meno efficace. Se dieci anni fa bastava che una celebrità indossasse un capo di abbigliamento in una foto su Instagram, menzionando il brand, per far incrementare consistentemente le vendite, oggi non è più così. Sono infatti moltissimi, soprattutto nel campo della moda, gli influencer che costruiscono tutto il proprio feed (quasi) esclusivamente con post sponsorizzati ed è evidente che, fra i loro follower, anche quelli che normalmente si attivano per comprare non possano rispondere a ogni singola call-to-action. Questo vuol dire che, a meno di non avere un budget milionario, si rischia di spenderlo tutto per un singolo post o una singola foto dell’influencer di turno, senza generare sul pubblico alcun impatto significativo. Meglio, dunque, concentrarsi su una strategia che costruisca una solida identità per il brand, piuttosto che accontentarsi di “nutrirsi” brevemente dell’identità di qualcun altro.

 

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Influencer o brand ambassador?

Un’altra figura chiave, all’interno di questa branca del marketing, è quella del brand ambassador. In questo caso, il marchio non si rivolgerà a una celebrità con la richiesta di usare un certo prodotto, ma si offrirà di ricompensare in qualche modo il cliente già affezionato, quello che utilizza il prodotto e ha potenzialmente una storia da raccontare, un’identità interessante o è associabile a valori che il brand trova significativi. La differenza, in questo caso, non sta solo nell’investimento, ma anche nel tipo di messaggio che si lancia. Molti brand subiscono il fascino e la tentazione della celebrità, ma non riescono a comprendere quanto sia maggiore l’efficacia del messaggio di un utente davvero entusiasta, che trasmette la passione per il prodotto, rispetto a quello di un volto famoso che evidentemente si associa al prodotto solo dietro pagamento. Il vero problema? L’ansia di molti brand di proiettarsi direttamente verso un’idea mal concepita di fama e di “viralità”, che si vorrebbero far esplodere dal giorno alla notte, senza un lavoro preliminare, semplicemente investendo un certo capitale. La verità è che non basta chiedere “quanto costa diventare famosi”: bisogna anche mettersi al lavoro e fare le mosse giuste.

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Perché si investe di meno in influencer

Dopo un picco avvenuto circa cinque anni fa, gli investimenti che i brand destinano agli influencer, soprattutto su Instagram, sono considerevolmente calati. Questo dato si può leggere alla luce di un fenomeno piuttosto semplice, che molti brand si sono rifiutati di considerare a tempo debito. Ovvero: il pubblico è intelligente. Il motivo per cui gli influencer funzionavano, inizialmente, era proprio la maggior fiducia che il pubblico accorda al parere di un altro utente, rispetto a quella che si può concedere a un brand. Nel momento in cui “l’utente” viene pagato dal brand, quella fiducia viene drasticamente ridimensionata, poiché il pubblico è consapevole che, se anche il prodotto avesse dei gravi difetti, la recensione dell’influencer pagato sarebbe comunque positiva e dunque si distingue assai poco da una normale promozione. Chi ieri si fidava soprattutto degli influencer, oggi si fida assai più delle recensioni su Amazon.

Investimenti alternativi

Se non dobbiamo più spendere (troppo) per i social influencer, dunque, come conviene investire il budget promozionale? Una buona idea è quella di investire in una ricerca sulla percezione sociale del proprio brand, sulla reputazione online e offline e sull’analisi del feedback fornito dai clienti. Creare un rapporto diretto con gli utenti, ascoltarli, prendere in carico lamentele e considerare suggerimenti, rispondere direttamente e informarsi sulla collocazione del brand nella percezione collettiva: tutte queste pratiche possono aiutarci a mettere in campo una strategia mirata ed efficace, che riesca autenticamente a consolidare l’identità e aumentare la popolarità del marchio.

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